topi e formaggio bala i ratt 

 

 

 

Proponiamo questo intelligente articolo che mette in evidenza le facili soluzioni che si vogliono proporre al cospetto, invece, della complessità dei problemi della società.

Buona lettura

 

L’ospite

Topolitica e politica dei topi

di Fabio Merlini, filosofo

 Da La Regione Ticino del 20.07.2011

Sgombero subito il campo da un possibile equivoco. Per quanto il termine possa ricordarla, ‘topolitica’ non allude all’ingrata cartellonistica di una sinistra campagna elettorale del nostro recente passato. Quando qualcuno ha pensato bene, occupando spazio pubblico, di mettere in scena attraverso topi, formaggi, festini e furti un certo modo di pensare ai problemi del Paese e alle soluzioni per risolverli.

Il termine si riferisce ad altro. Anche se questo ‘altro’ non è per nulla indifferente alle prese di posizione irresponsabili e offensive che sempre più spesso caratterizzano il dibattito politico nostrano.

Sempre che di dibattito sia ancora possibile parlare, quando vengono progressivamente meno tanto la competizione, quanto la cura per l’attuazione delle soluzioni migliori.

Dunque: ‘topolitica’ è l’espressione utilizzata da Jacques Derrida – autore tanto geniale, quanto talvolta irritante a causa dei suoi barocchismi lessicali – al fine di indicare la relazione che la politica dell’età moderna istituisce con il territorio implicato nelle sue deliberazioni. Quella relazione costitutiva tra luoghi (i topoi appunto) e ordinamenti politici, tra spazio e diritto, in base a cui lo Stato nazionale si è imposto quale potentissimo veicolo di affermazione della nostra identità di soggetti localizzati e stabilizzati entro confini ben definiti. Identificarsi con lo Stato, in questo caso vuol dire riconoscersi in una sovranità che si afferma territorialmente. E che attraverso tale attestazione conserva la sua unità politica, assicurando al contempo la coesione del corpo sociale.

È stata questa l’epoca in cui, con il tempo, ha potuto affermarsi, nel bene e nel male, un’aderenza senza scarti tra politica, cittadinanza e luogo. Come dire che lo spazio ha la sua identità e le identità hanno il loro spazio, secondo il modello del riconoscimento reciproco.

Questo quadro oggi è del tutto saltato, perché né lo spazio può ancora contare su un’identità di questo tipo, né tantomeno le identità possono ancora riconoscersi nella realtà dello spazio tracciata dallo Stato moderno, con i suoi confini, le sue linee di difesa e attacco, le sue forme di autoprotezione (politica, militare, economica). La fine di questo modello produce comprensibilmente disorientamento, regressione, autoreferenzialità. In primo luogo, perché incrina la possibilità stessa di identificare con certezza il luogo in cui si è. E di conseguenza, anche la possibilità di accertare, su basi tradizionali, ciò che si è. La topolitica declina perché le strategie immunitarie proprie dello Stato nazionale si mostrano del tutto inadeguate a fronteggiare gli attacchi provenienti oggi dall’esterno. O meglio, perché la stessa contrapposizione tra interno ed esterno è completamente da ripensare.

Il crepuscolo della topolitica non è allora, ahimè, il declino di un nonstile politico – diffusissimo qui da noi e altrove – che trova nella doppia immagine del famelico topo transfrontaliero e del formaggio svizzero razziato l’emblema del suo modo di intendere come stanno, e come dovrebbero stare, le cose. E non è neppure il declino di una certa azione politica, abilissima quando si tratta di alzare la voce, insultare, irridere e denunciare l’avversario; maldestra, invece, quando è il momento di padroneggiare argomenti, di esprimere coerenza, di assumere responsabilità. È un fenomeno generalizzato e, per questo, non ne siamo immuni. Prossimi all’Italia – grande laboratorio avanguardistico, negli ultimi decenni, di questa tendenza deleteria –, temiamo la baldanza festaiola e predatoria dei topi di confine; minacciamo di innalzare muri invalicabili alle frontiere – senza del resto avvederci di quanto sia già ostruita la nostra vista. Ma, per altro verso, non abbiamo avuto alcuna remora a importare, proprio dall’Italia, la spettacolarizzazione volgare del confronto politico, la sua riduzione a un aggressivo e prevaricatore scambio di slogan e insulti. Non voglio ora neppure accennare al ruolo che hanno svolto i media nell’affermazione di questo deleterio modello comunicativo. Dove di veramente ‘comunicativo’ rimane ben poco.

Con buona pace di chi, abbagliato dallo straordinario apparato trasmissivo (di informazioni, immagini e suoni) oggi a disposizione, continua a parlare del nostro presente in termini di ‘società della comunicazione’.

Il crepuscolo della topolitica è, semmai, un fenomeno che permette di inquadrare l’emergere della ‘politica dei topi’, intesa, lo ripeto, come reazione emblematica alla crisi di una società sempre più incapace di fronteggiare processi complessi (per non parlare dei loro effetti). Processi, tra l’altro, che sfuggono a qualsiasi controllo politico. Dopo che la politica ha colpevolmente rinunciato a dialogare in modo dialettico con l’economia, per allinearsi alle sue necessità, in una subalternità paralizzante su più fronti (tranne quando è convocata ad operarsi in suo soccorso). La politica dei topi, nel senso appena precisato, definisce reazioni prive di qualsiasi mediazione. Pretendendo, sì, di rispondere all’urgenza, ma credendo di poterla fronteggiare attraverso la chiamata a raccolta delle nostre risorse più basse e primitive, quasi che partendo da esse fosse possibile andare al cuore stesso dei problemi, senza girovagazioni inutili. Ignora, però, che la regressione è sempre solo una soluzione apparente. Il fatto è che ridurre la complessità – una mossa inevitabile quando si voglia affrontarla – non equivale per nulla a semplificarla. Attraverso la semplificazione, credi di aver identificato una strada per affrontare il problema. Ma ti stai sbagliando, perché ciò che ti guida è, di fatto, solo il simulacro di un problema.

È esattamente quel che accade quando cerchiamo, e troviamo, un capro espiatorio per i torti subiti. Siamo nel più palese inganno. Attribuiamo un nome alla loro causa (i frontalieri, gli immigrati, i funzionari parassiti, la burocrazia inefficiente), ma questo nome, proprio per la semplificazione in cui siamo incorsi, è l’abbaglio con il quale ci inganniamo sulla strada da perseguire per giungere a una soluzione plausibile.

La logica del capro espiatorio – visto che è proprio di questo che stiamo parlando – è una subdola strategia di depistamento. Dobbiamo sapere che ogni qualvolta un disagio, un’emergenza, una crisi vengono indicate attraverso la figura del capro espiatorio qualcuno ci sta ingannando. Vuole indurci a credere che il problema è circoscrivibile e riconducibile a una origine sicura, omogenea, facilmente identificabile. Ma soprattutto: vuole indurci a credere che la soluzione sia a portata di mano e a buon mercato. Chi usa la tecnica del capro espiatorio, vuole nasconderci che, tutt’al contrario, i problemi, quelli che davvero ci mettono in gioco, sorgono sempre quando è venuto il momento di interpellarci; quando è il momento di capire che qualcosa forse non funziona nel nostro modo consueto di interpretare la realtà che ci circonda, che qualcosa va radicalmente cambiato nel nostro modo di intervenire su di essa.

Chi utilizza l’argomento del capro espiatorio nasconde agli occhi dei suoi interlocutori la povertà degli strumenti di cui dispone. Sa di non possedere le risorse necessarie ad intraprendere questo confronto. Così, reagisce con una chiusura che, prima ancora di essere chiusura nei confronti del presunto colpevole, è appunto chiusura nei confronti della propria disponibilità a lasciarsi interpellare dalle situazioni. Sa, o forse non lo sa neppure, che in questi casi le soluzioni non sono mai a buon mercato. A buon mercato, qui, c’è solo la sua indisponibilità, l’ignoranza con cui si chiude al mondo: un pauroso segno di debolezza.

 

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