PAGINE DI
VIOLA MARTINELLI
CdT 24.02.2014
Paesaggio
Cambiare il volto alla Svizzera
senza soffocarla nel cemento
L’evoluzione dei modelli abitativi ed edificatori coinvolge ormai l’intera collettività
L’opinione di due esperti urbanisti che prefigurano scenari e ipotizzano soluzioni.
Le cifre non lasciano spazio ai dubbi: in Svizzera l’80% della superficie edificabile è già occupata e secondo le previsioni dell’Ufficio federale di statistica, nel 2030 la popolazione elvetica toccherà i 9,5 milioni di abitanti, ovvero quasi due milioni in più rispetto ad oggi. Sulla necessità quindi di trovare una
soluzione all’esigua disponibilità di terreno ancora edificabile e all’aumento demografico sono tutti concordi. Sulle modalità invece i pareri divergono. Grattacieli, densificazione delle case monofamiliari, evoluzione dei modelli abitativi, riutilizzo delle zone industriali dismesse… Le soluzioni evidenziate
sono molteplici ma la domanda centrale è una sola: come cambierà nei prossimi anni il volto del paesaggio svizzero?
Secondo Hans-Georg Bächtold, direttore della Società svizzera degli Ingegneri e Architetti (SIA), in futuro gli
agglomerati urbani saranno più densi, ma allo stesso tempo più belli. «Mi rendo conto che l’idea di densità spaventa molti cittadini svizzeri – dichiara Bächtold –. Questo perché spesso non si riesce ad associarla a un concetto di qualità della vita. In futuro i modelli insediativi odierni, particolarmente dispersi, non esisteranno più a causa del loro eccessivo dispendio economico e di risorse». La sfida che si presenta
alle autorità competenti secondo il direttore della SIA, è quindi quella di trovare nuove soluzioni attrattive per i cittadini, che concentrino le esigenze individuali di ogni abitante su una superficie di terreno limitata. Ovvero quella che in gergo viene chiamata «densificazione insediativa di qualità». Una risposta in questo senso arriva dall’architetta romanda Mariette Beyeler, che vede nella riorganizzazione delle case monofamiliari una valida alternativa alla costruzione di nuovi edifici. Come illustra Beyeler infatti, sempre più abitazioni unifamiliari sono «sottoccupate»: un anziano rimasto solo o una famiglia dove i figli ormai
cresciuti hanno cercato una propria sistemazione sono i casi più frequenti. Lo spazio inutilizzato potrebbe quindi venir «trasformato» rispettando da una parte le esigenze del proprietario, e riservando il resto della casa ad altri membri della famiglia o a nuovi subentranti. «Questa ottimizzazione dello spazio – sostiene Beyeler – porterebbe dei benefici non solo in termini di contatto sociale tra i nuclei familiari che si ritrovano a convivere, ma anche sul piano finanziario ed ecologico: i costi della casa verrebbero infatti suddivisi
tra più economie domestiche e questa concentrazione permetterebbe un minor consumo di superficie».
Densificare sembrerebbe così la nuova parola magica. Una montagna di grattacieli? Negli scenari futuri, assieme alla densificazione, si delinea però anche un secondo modello abitativo: quello dei grattacieli e della crescita verso l’alto. Interrogato sulla possibilità di veder sorgere nel nostro Paese nuove costruzioni
che puntano al cielo, Hans-Georg Bächtold si dice positivo e per nulla intimidito da una simile evoluzione. «I
grattacieli non sono chiaramente l’unico rimedio possibile al problema dell’insediamento. Basta pensare che, a Zurigo, aumentando di un piano le abitazioni situate nelle zone R4 si otterrebbe abbastanza spazio per circa 60 mila persone. Un risultato significativo e senza aver costruito torri altissime. I grattacieli però sono un’alternativa molto interessante: se costruiti nel posto giusto, vicino ad altri palazzi di una
certa altezza e adiacenti alle stazioni, possono essere una preziosa aggiunta ad uno spazio urbano di qualità. Da questo punto di vista i grattacieli, se integrati in maniera razionale, possono diventare molto utili per ridare vita ad alcuni quartieri. Non dobbiamo averne paura». Come ci conferma il direttore della SIA, al momento ci sono una ventina di progetti simili in corso. L’ipotesi di ritrovarsi un giorno a vivere in una «piccola Manhattan svizzera» per il momento non sembra quindi esser esclusa. Troppo lo spazio sprecato Tutta colpa dei continui insediamenti quindi se il terreno edificabile scarseggia? Non proprio. A far pendere la bilancia verso il piatto dello spreco ci sarebbe infatti un altro fattore centrale spesso posto in secondo piano: le aree industriali dismesse. Secondo un rapporto pubblicato dall’Ufficio federale dello
sviluppo territoriale (ARE), in Svizzera si contano ben 350 aree industriali in disuso che occupano una superficie totale di 18 km quadrati. Per avere un’idea di tale portata basta pensare che queste zone
ricoprono un’area perfino superiore a quella della città di Ginevra (16 km2). Prima di «correggere» le abitudini abitative dei cittadini quindi, perché non cercare di recuperare queste zone, oggi completamente abbandonate?
Maria Lezzi (leggi intervista sotto), a capo dell’Ufficio federale per lo sviluppo territoriale, ci spiega che i criteri da considerare sono numerosi: «Nel risanamento di questi spazi – dichiara la direttrice dell’ARE – bisogna calcolare molti aspetti, tra i quali la volontà dei proprietari di investire in un progetto simile. A volte infatti capita che un progetto di rivalorizzazione venga interrotto perché uno dei partner, Cantone, Comune o privato, fa marcia indietro bloccando l’intero processo». I costi per le operazioni di risanamento, il mancato interesse del mercato per queste aree spesso situate in periferia o in zone poco attrattive e la necessità di coordinare il lavoro tra più attori diventano così variabili che influiscono in maniera decisiva sul riutilizzo di queste aree abbandonate. «La superficie occupata dalle strutture ferroviarie in disuso e dalle industrie che hanno cessato la propria attività – continua Maria Lezzi – è una riserva di zone edificabili
molto promettente. Non stiamo parlando di una “quantité négligeable”.Uno dei nostri obiettivi è quindi
quello di cercare nuove strategie perun migliore riutilizzo di queste superfici.Prima di andare a costruire nelle ultime riserve rimaste, dovremmo infatti concentrarci su queste risorse inattive». I mutamenti che interesseranno il panorama architettonico svizzero appaiono quindi numerosi. Le fondamenta per pianificare il futuro della Svizzera ci sono, ora bisogna iniziare a costruire, o meglio, a razionalizzare.
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Il rimedio è duplice: alleanze fra enti locali e densificazione a misura d’uomo
Maria Lezzi:
Direttrice dell’Ufficio federale per lo sviluppo territoriale (ARE)
Esperta di pianificazione e assetto del territorio ci spiega come, nei prossimi anni, evolverà la morfologia dei centri urbani. Tra densificazione, riqualifica dei nuclei cittadini, salvaguardia delle risorse e collaborazioni fra Comuni la sfida alla progettazione del domani è aperta
*
Abbiamo chiesto a Maria Lezzi, direttrice dell’Ufficio federale per lo sviluppo territoriale, come si immagina il paesaggio svizzero fra vent’anni.
«Innanzitutto posso dire come non vedo la Svizzera fra vent’anni: sicuramente non mi immagino il nostro Paese ricoperto di immobili dal Lago di Costanza al Lago di Ginevra o da Basilea a Sud delle Alpi. Questo non è certamente uno scenario auspicabile. La mia concezione invece è quella di una Svizzera come un luogo dove ci si senta a casa, in cui anche fra vent’anni il cittadino si possa sentire parte del proprio Paese.
Mi immagino quindi diverse tipologie di paesaggio in armonia tra di loro, ben collegate l’una con l’altra grazie ad un’efficiente rete di trasporti che permetta di spostarsi rapidamente dalla città alla campagna e viceversa. Di conseguenza intervenire sulla tendenza odierna è d’obbligo: se non facciamo qualcosa di concreto, quello che ci aspetta sarà un “groviglio” di insediamenti senza alcuna forma e ordine».
Quali sono dunque i prossimi passi? «Con la revisione parziale della leggesulla pianificazione del territorio, approvataa netta maggioranza il 3 marzo2013, e con l’iniziativa sulle abitazionisecondarie la volontà del popolo si èespressa chiaramente: lo sviluppo degliinsediamenti dev’essere compatto e limitato.
La direzione che dobbiamo intraprendere è dunque quella della salvaguardia del nostro territorio, in particolar modo delle zone verdi e di campagna, che fanno parte del patrimonio culturale del nostro Paese. Lo sviluppo di nuove strategie di densificazione è una via percorribile che permette di lottare contro lo sviluppo dispersivo». La soluzione è quindi densificare? «È una delle soluzioni di cui si parla molto al momento ma, come per la medicina, è un rimedio che necessita di precauzioni nel dosaggio. La densificazione dev’essere proporzionata: se il discorso si riduce ad un utilizzo speculativo della superficie questa “cura” non è più attrattiva ma al contrario controproducente poiché le persone, appena
ne hanno la possibilità, scappano dalla città per rifugiarsi in campagna o nelle zone verdi in cerca di una maggiore qualità di vita. Bisogna quindi avere una densificazione ben dosata e a misura d’uomo, che vada incontro alle necessità della gente. La crescita della superficie abitativa dev’essere così accompagnata
dall’offerta di zone verdi e di relax che valorizzano i quartieri abitativi. Ampliare la superficie abitativa
in questi centri ne favorirebbe la dinamica sociale e permetterebbe inoltre di limitare l’attività edilizia nelle zone verdi al suo esterno. Ridare vita ai centri, urbani e storici, evitando che si svuotino con la chiusura serale di uffici e commerci è quindi uno degli obiettivi». In questa direzione, l’ARE ha presentato
il «Progetto territoriale Svizzera». Di cosa si tratta? «Nel dicembre 2012 abbiamo presentatoi risultati di un lavoro durato 6 anni, il“Progetto territoriale Svizzera”. Questostudio è il frutto di una cooperazione tra
Confederazione, Cantoni, Comuni e Città ed è concepito come una base di riferimento e di supporto per le future decisioni in materia. Questo progetto non è vincolante ma presenta delle linee guida per perseguire uno sviluppo territoriale più sostenibile». Può farci qualche esempio? «Dal momento che le realtà paesaggistiche variano considerevolmente da cantone a cantone non abbiamo potuto fare delle previsioni nei dettagli per ogni zona analizzata. Abbiamo però individuato delle strategie e misure generali da adattare caso per caso: valorizzare gli insediamenti e i paesaggi, impedire che i centri storici e i quartieri residenziali si spopolino, armonizzare elementi chiave come il traffico, la rete energetica e lo sviluppo territoriale, creare aree di intervento. I progetti scaturiti dal “Progetto territoriale Svizzera” sono molti. Alcuni di questi sono già in fase di svolgimento ma il grosso del lavoro inizia adesso». Il futuro della Svizzera si concentraquindi nei grandi centri urbani? «No, non penso proprio. Chiaro le “metropoli” sono il motore dell’economia, come illustriamo anche nel progetto territoriale, ma anche le altre regioni svizzere devono essere coinvolte nello sviluppo. Tutti i centri rivestono una grande importanza, non solo quelli urbani ma anche quelli rurali, periferici, alpini o di natura turistica. Località come Andermatt, Thusis, Biasca o Roveredo offrono molte possibilità, sia dal punto di vista abitativo sia lavorativo e devono diventare ancora
più attrattive. Per il futuro mi immagino quindi una Svizzera composta da più centri di interesse, diversificati tra loro. In questo senso bisogna sfruttare la forza specifica di ogni luogo, adattando i progetti di sviluppo alle loro caratteristiche individuali. Non possiamo pensare di fare copia-incolla di un progetto vincente sull’intero territorio svizzero». Finite le analisi, presentati i progetti. Eadesso? «Adesso la parola d’ordine è “mettere in atto”. Abbiamo gettato le basi, anche dal punto di vista della legge, abbiamo abbozzato dei progetti strategici con il “Progetto territoriale Svizzera”, possediamo buoni esempi già realizzati e ora l’unica strada percorribile è quella di rendere concreti i buoni propositi espressi. Questo ci conduce necessariamente verso un lavoro di fino e di collaborazione tra Comuni, Cantoni e Confederazione.
Basta costruire così alla cieca. Cercare di ridurre questa tendenza a edificare in maniera sempre più
smisurata su un territorio allo stremo delle sue risorse è quindi una grande sfida: si deve discutere in merito a dove, in futuro, vogliamo concentrare la crescita e costruire in queste zone. Occorre interrogarsi sui bisogni di domani, sulla conseguente distribuzione sul territorio delle aree industriali, commerciali,
abitative e di svago. Un passo in questa direzione a mio parere sono gli agglomerati che incoraggiano una stretta collaborazione tra i Comuni. Questo elemento è la chiave di volta per il futuro: non più un territorio dove ogni comune agisce da solo ma una vera e propria cooperazione fra questi attori, infine, un’alleanza».
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Michele Arnaboldi
Architetto e professoreinsegna all’Accademia di Mendrisio Negli ultimi quattro anni ha diretto il progetto«Lo spazio pubblico nella Città Ticino di domani », un’analisi completa del nostro territorio che si pone come punto di riferimento per le future trasformazioni edilizie che interesseranno il paesaggio ticinese
Architetto Arnaboldi, ci parli del progetto «Città Ticino».
«Finanziato dal Fondo nazionale svizzero, il progetto “Città Ticino” è uno studio che coinvolge il Cantone, i Comuni e l’Accademia di Mendrisio. Uno dei suoi obiettivi era quello di individuare
le aree industriali dismesse e segnalarle come zone propizie per una futura riqualifica. Questo per dimostrare che esiste la possibilità di ridisegnare e ricostruire il nostro territorio in maniera qualitativa, senza esaurire altre risorse. Occorre infatti mettere un freno alla tendenza di consumare il territorio
cantonale promuovendo invece operazioni che ridiano qualità alla regione. Per fare questo abbiamo lavorato partendo proprio dal territorio, in particolar modo dal fondovalle che è il grande spazio pubblico del Ticino. Siamo partiti dall’idea che la delimitazione degli spazi vuoti possa fungere da matrice per la futura pianificazione edilizia. Contrariamente alle tendenze odierne, che prima definiscono le aree edificabili relegando il resto a paesaggio, noi abbiamo seguito il percorso inverso». Cosa è emerso dalle vostre osservazioni? «Per quanto riguarda le aree industriali in disuso purtroppo uno dei problemi è
che spesso sfuggono agli occhi del cittadino. Se partissimo da Biasca, scendendo e attraversando il Ticino percorrendo unicamente le strade cantonali, ci si renderebbe conto della loro massiccia presenza. Il motivo per il quale queste zone sono “nate male” è che sono sempre state ritenute aree di serie B, dove chiunque poteva fare quello che voleva. E questo è un grosso equivoco: non esistono aree di serie B. Sono tutte di
qualità ma con contenuti ed esigenze diverse. In questo senso lo studio ci permette di capire come agire sul nostro territorio. Perché ogni spazio, ogni luogo ha la sua vocazione ed esigenza».Perché siamo arrivati alla situazioneodierna? «Nel nostro Cantone i problemi principali sono tre. Innanzitutto il problema del Ticino è che o si finanziano progetti faraonici o non si fa niente. Spesso infatti, proprio a causa della “taglia” di
questi progetti si rischia che per molteplici motivi, i promotori pubblici e i privati non riescono più a sostenere il progetto iniziale che finisce abbandonato. Bisognerebbe invece avere una visione più ampia, investire in progetti che si possano sviluppare a tappe, nel tempo, adattabili alla nostra realtà e alle
possibilità economiche degli investitori. Partire con poco e conquistare la fiducia della popolazione perché è inutile partire con progetti enormi che poi finiscono tutti in referendum. Secondo punto sono i nuovi modelli abitativi. La scelta di densificare spesso non viene associata dalla popolazione ad una qualità di vita elevata. Per superare questa barriera bisogna fare affidamento ai promotori. E qui c’è un problema
perché quello che manca da noi è proprio la cultura dei promotori. Occorre mettere un freno a quei promotori a cui interessano solo i guadagni, dimostrando di non avere alcuna responsabilità nei confronti del nostro territorio. Responsabili in questo senso non sono solo i politici ma anche i pianificatori.
Dobbiamo ritrovare una cultura urbanistica e un rispetto del territorio. Infine, l’autonomia dei Comuni in materia di pianificazione ha portato a questo disastro: tutti hanno voluto la propria zona industriale senza pensare alle ripercussioni sul paesaggio. Anche la mancanza di una strategia cantonale chiara e precisa ha influenzato questo sviluppo. L’errore principale risiede quindi nel piano regolatore». Ha parlato di «cultura urbanistica»,mi spieghi meglio questo concetto. «Per capire meglio questo termine si può pensare alle Officine di Bellinzona, agli spazi dell’Agricola Ticinese a Giubiasco o ancora ad alcuni stabili vicini alla stazione di Chiasso. Edifici simili, tipici del quartiere industriale stile fine ‘800, inizio ‘900 che incoraggiava la nascita di fabbricati esteticamente belli, sono ormai rari in Ticino. Molti sono stati infatti distrutti. Oggi quando vengono costruiti degli edifici industriali si pensa sempre al fattore economico: vengono ideati in modo tale che nel corso di 15 anni i costi sono ammortizzati. È un edificio che non deve durare, si sa di partenza che verrà sostituito. Partendo da questo concetto la ricerca della qualità è chiaramente assente. In
questo senso in Ticino non esiste una vera e propria cultura dell’edificio industriale di qualità».
In un discorso più ampio quindi quali sono le soluzioni da adottare? «Sicuramente continuare ad occupare
il nostro territorio con delle casette monofamiliare non è la strategia giusta. Lo ripeto, non abbiamo bisogno di edificare nuova superficie. In questo senso il recupero delle aree industriali è fondamentale
soprattutto dove ci saranno le nuove stazioni TILO, che diventeranno un punto di riferimento per tutto il Cantone. Queste aree industriali abbandonate – pensiamo ad esempio alla zona del Vedeggio – devono essere assoluta- con la chiusura serale di uffici e commerci è quindi uno degli obiettivi». In questa direzione, l’ARE ha presentatoil «Progetto territoriale Svizzera».Di cosa si tratta? «Nel dicembre 2012 abbiamo presentato i risultati di un lavoro durato 6 anni, il “Progetto territoriale Svizzera”. Questo
studio è il frutto di una cooperazione tra Confederazione, Cantoni, Comuni e
Città ed è concepito come una base di riferimento e di supporto per le future decisioni in materia. Questo progetto non è vincolante ma presenta delle linee guida per perseguire uno sviluppo territoriale più sostenibile». Può farci qualche esempio? «Dal momento che le realtà paesaggistiche variano considerevolmente da cantone a cantone non abbiamo potuto fare delle previsioni nei dettagli per
ogni zona analizzata. Abbiamo però individuato delle strategie e misure generali da adattare caso per caso: valorizzare gli insediamenti e i paesaggi, impedire che i centri storici e i quartieri residenziali si spopolino, armonizzare elementi chiave come il traffico, la rete energetica e lo sviluppo territoriale, creare aree di intervento. I progetti scaturiti dal “Progetto territoriale Svizzera” sono molti. Alcuni di questi sono già in fase di svolgimento ma il grosso del lavoro inizia adesso». Il futuro della Svizzera si concentraquindi nei grandi centri urbani? «No, non penso proprio. Chiaro le “metropoli” sono il motore dell’economia,
come illustriamo anche nel progetto territoriale, ma anche le altre regioni svizzere devono essere coinvolte
nello sviluppo. Tutti i centri rivestono una grande importanza, non solo quelli urbani ma anche quelli rurali,
periferici, alpini o di natura turistica. Località come Andermatt, Thusis, Biasca o Roveredo offrono molte possibilità, sia dal punto di vista abitativo sia lavorativo e devono diventare ancora più attrattive. Per il futuro mi immagino quindi una Svizzera composta da più centri di interesse, diversificati tra loro. In questo senso bisogna sfruttare la forza specifica di ogni luogo, adattando i progetti di sviluppo alle loro caratteristiche individuali. Non possiamo pensare di fare copia-incolla di un progetto vincente sull’intero territorio svizzero». Finite le analisi, presentati i progetti. Eadesso? «Adesso la parola d’ordine è “mettere in atto”. Abbiamo gettato le basi, anche dal punto di vista della legge, abbiamo abbozzato dei progetti strategici con il “Progetto territoriale Svizzera”, possediamo buoni esempi già realizzati e ora l’unica strada percorribile è quella di rendere concreti i buoni propositi espressi. Questo ci conduce necessariamente
verso un lavoro di fino e di collaborazione tra Comuni, Cantoni e Confederazione. Basta costruire così alla cieca. Cercare di ridurre questa tendenza a edificare in maniera sempre più smisurata su un territorio allo stremo delle sue risorse è quindi una grande sfida: si deve discutere in merito a dove, in futuro, vogliamo concentrare la crescita e costruire in queste zone. Occorre interrogarsi sui bisogni di domani, sulla conseguente distribuzione sul territorio delle aree industriali, commerciali, abitative e di svago. Un passo in questa direzione a mio parere sono gli agglomerati che incoraggiano una stretta collaborazione tra i Comuni. Questo elemento è la chiave di volta per il futuro: non più un territorio dove ogni comune
agisce da solo ma una vera e propria cooperazione fra questi attori. Infine, un’alleanza». ventano così variabili che influiscono in maniera decisiva sul riutilizzo di queste aree abbandonate. «La superficie
occupata dalle strutture ferroviarie in disuso e dalle industrie che hanno cessato la propria attività continua
Maria Lezzi – è una riserva di zone edificabili molto promettente. Non stiamo parlando di una “quantité négligeable”. Uno dei nostri obiettivi è quindi quello di cercare nuove strategie per un migliore riutilizzo di queste superfici. Prima di andare a costruire nelle ultime riserve rimaste, dovremmo infatti concentrarci su queste risorse inattive». I mutamenti che interesseranno il panorama architettonico svizzero appaiono
quindi numerosi. Le fondamenta per pianificare il futuro della Svizzera ci sono, ora bisogna iniziare a costruire, o meglio, a razionalizzare. e densificazione a misura d’uomo